Cosa accade con Facebook, Twitter, Google e altri account quando un utente muore?

Cosa succede ai nostri account digitali dopo la morte?
Un’eredità invisibile ma reale: la vita digitale dopo il decesso
Nel mondo sempre più interconnesso in cui viviamo, la nostra esistenza digitale è diventata parte integrante della nostra identità.
Email, social network, account cloud, piattaforme di streaming, servizi bancari online e archivi fotografici sono il riflesso virtuale della nostra vita quotidiana.
Ma cosa accade a tutto questo quando moriamo?
Chi può accedervi?
E soprattutto: esiste un modo per “recuperare” o gestire questo patrimonio digitale?
Una prova sul campo: simulare la morte per capire il futuro digitale
Per rispondere a queste domande, abbiamo deciso di intraprendere un esperimento.
Ci siamo messi nei panni di chi resta: un familiare, un coniuge, una compagna, un amico che – colpito dalla perdita – cerca di recuperare la vita digitale del defunto.
Abbiamo contattato le principali piattaforme digitali fingendo la morte dell’intestatario di un account.
Lo scopo?
Verificare prassi, tempistiche e difficoltà nell’accesso a dati e profili online.
Social network: memoria o oblio?
Facebook è una delle poche piattaforme ad aver strutturato in modo chiaro la gestione dei profili post mortem.
Gli utenti possono designare un contatto erede o richiedere la trasformazione dell’account in memoriale.
Instagram segue una procedura simile.
X (ex Twitter) e TikTok, invece, sono molto più restrittivi: l’account viene rimosso, salvo esplicita indicazione testamentaria o intervento legale.
LinkedIn permette la segnalazione del decesso e la successiva chiusura dell’account, ma non offre possibilità di recupero dei dati senza autorizzazione formale.
Email e archivi cloud: ostacoli legali e tecnici
L’accesso agli account di posta elettronica rappresenta una delle maggiori sfide per i parenti.
Gmail richiede documentazione legale dettagliata, come certificati di morte, testamenti e ordini del tribunale.
Outlook e Yahoo hanno policy simili, con iter lunghi e non sempre risolutivi.
Anche gli archivi cloud (Google Drive, iCloud, Dropbox) non sono facilmente accessibili se non espressamente menzionati nel testamento digitale del defunto.
La fragilità del “testamento digitale”
Il cosiddetto “testamento digitale” è ancora una pratica poco diffusa, ma fortemente consigliata.
Consiste in un documento dove l’utente indica cosa fare dei suoi account in caso di decesso e a chi affidarne la gestione.
Piattaforme come Google offrono strumenti nativi come il “Gestore account inattivo”, che consente di decidere in anticipo a chi affidare dati e contenuti.
Tuttavia, pochi ne sono a conoscenza e ancora meno li configurano.
La necessità di una nuova consapevolezza
Gestire la propria eredità digitale non è solo una questione tecnica, ma un atto di responsabilità.
Lasciare ai propri cari strumenti chiari per accedere – o eliminare – contenuti sensibili, può essere un modo per proteggerli e accompagnarli anche dopo la morte.
In un’epoca in cui la nostra identità è custodita online, la pianificazione digitale dovrebbe diventare parte della cultura del fine vita.
Conclusioni: morire nell’era digitale
L’esperimento che abbiamo condotto dimostra quanto sia complesso, lento e a volte impossibile accedere alla vita digitale di chi non c’è più.
Ogni piattaforma ha regole proprie, spesso non facilmente interpretabili.
La soluzione?
Pianificare in anticipo.
Conoscere gli strumenti a disposizione.
E soprattutto, iniziare a considerare la nostra “eredità digitale” come parte integrante della nostra memoria.
Cosa succede ai nostri account digitali dopo la morte?
Un’eredità invisibile ma reale: la vita digitale dopo il decesso
Nel mondo sempre più interconnesso in cui viviamo, la nostra esistenza digitale è diventata parte integrante della nostra identità.
Email, social network, account cloud, piattaforme di streaming, servizi bancari online e archivi fotografici sono il riflesso virtuale della nostra vita quotidiana.
Ma cosa accade a tutto questo quando moriamo?
Chi può accedervi?
E soprattutto: esiste un modo per “recuperare” o gestire questo patrimonio digitale?
Una prova sul campo: simulare la morte per capire il futuro digitale
Per rispondere a queste domande, abbiamo deciso di intraprendere un esperimento.
Ci siamo messi nei panni di chi resta: un familiare, un coniuge, una compagna, un amico che – colpito dalla perdita – cerca di recuperare la vita digitale del defunto.
Abbiamo contattato le principali piattaforme digitali fingendo la morte dell’intestatario di un account.
Lo scopo?
Verificare prassi, tempistiche e difficoltà nell’accesso a dati e profili online.
Social network: memoria o oblio?
Facebook è una delle poche piattaforme ad aver strutturato in modo chiaro la gestione dei profili post mortem.
Gli utenti possono designare un contatto erede o richiedere la trasformazione dell’account in memoriale.
Instagram segue una procedura simile.
X (ex Twitter) e TikTok, invece, sono molto più restrittivi: l’account viene rimosso, salvo esplicita indicazione testamentaria o intervento legale.
LinkedIn permette la segnalazione del decesso e la successiva chiusura dell’account, ma non offre possibilità di recupero dei dati senza autorizzazione formale.
Email e archivi cloud: ostacoli legali e tecnici
L’accesso agli account di posta elettronica rappresenta una delle maggiori sfide per i parenti.
Gmail richiede documentazione legale dettagliata, come certificati di morte, testamenti e ordini del tribunale.
Outlook e Yahoo hanno policy simili, con iter lunghi e non sempre risolutivi.
Anche gli archivi cloud (Google Drive, iCloud, Dropbox) non sono facilmente accessibili se non espressamente menzionati nel testamento digitale del defunto.
La fragilità del “testamento digitale”
Il cosiddetto “testamento digitale” è ancora una pratica poco diffusa, ma fortemente consigliata.
Consiste in un documento dove l’utente indica cosa fare dei suoi account in caso di decesso e a chi affidarne la gestione.
Piattaforme come Google offrono strumenti nativi come il “Gestore account inattivo”, che consente di decidere in anticipo a chi affidare dati e contenuti.
Tuttavia, pochi ne sono a conoscenza e ancora meno li configurano.
La necessità di una nuova consapevolezza
Gestire la propria eredità digitale non è solo una questione tecnica, ma un atto di responsabilità.
Lasciare ai propri cari strumenti chiari per accedere – o eliminare – contenuti sensibili, può essere un modo per proteggerli e accompagnarli anche dopo la morte.
In un’epoca in cui la nostra identità è custodita online, la pianificazione digitale dovrebbe diventare parte della cultura del fine vita.
Conclusioni: morire nell’era digitale
L’esperimento che abbiamo condotto dimostra quanto sia complesso, lento e a volte impossibile accedere alla vita digitale di chi non c’è più.
Ogni piattaforma ha regole proprie, spesso non facilmente interpretabili.
La soluzione?
Pianificare in anticipo.
Conoscere gli strumenti a disposizione.
E soprattutto, iniziare a considerare la nostra “eredità digitale” come parte integrante della nostra memoria.


















































































