Io sono Laura Lanza, la Baronessa di Carini.

Mi chiamo Laura Lanza di Trabia, ma il mondo mi conosce come la Baronessa di Carini.
Il mio nome è rimasto sospeso nel tempo, legato al mistero di un castello e a un delitto che ancora oggi fa vibrare le corde della memoria siciliana.
Nata il 7 ottobre 1529 nel castello di Trabia, ero la primogenita del Conte Cesare Lanza di Trabia e Mussomeli e di Lucrezia Gaetani.
A soli quattordici anni, nel dicembre del 1543, fui data in sposa a Don Vincenzo La Grua Talamanca, signore di Carini.
Un matrimonio combinato, come usava tra le famiglie nobili del tempo, per consolidare potere e ricchezze.
Non fu amore, ma dovere.
La mia vita si trasformò in una prigione dorata, fatta di silenzi, occhi sospettosi e mura troppo alte per vedere l’orizzonte.

L’amaro caso della Baronessa di Carini

Nel cuore di quella prigionia, conobbi Ludovico Vernagallo, cugino di mio marito.
Con lui nacque un sentimento puro e segreto, un amore che sfidava le regole del mio mondo.
In un’epoca in cui l’onore valeva più della verità, il nostro amore era un crimine.
La notte del 4 dicembre 1563, il destino ci scoprì insieme.
Non ci fu tempo per fuggire né per chiedere perdono.
Mio padre Cesare, d’accordo con mio marito, impugnò la spada e mi trafisse con le sue stesse mani, uccidendo anche Ludovico.
Due cuori uniti nella vita e nella morte.

Unità mobile ad alte prestazioni per la refrigerazione della salma

Il segno della mano e il mistero della sepoltura

Si racconta che, colpita al petto, mi appoggiai al muro del castello, lasciando l’impronta insanguinata della mia mano, un segno che per secoli rimase visibile e venerato come simbolo di dolore eterno.
Testimoni giurano di averla vista fino alla metà del Novecento, quando venne cancellata dal custode, stanco dei curiosi che accorrevano da ogni parte della Sicilia.
Secondo la tradizione, il mio corpo fu sepolto nella cripta dei La Grua sotto l’altare maggiore della chiesa madre di Carini.
Tuttavia, studi più recenti — tra cui quelli condotti dal grafologo Carmelo Dublo nel 2014 con la collaborazione del RIS di Messina — ipotizzano che la mia vera tomba si trovi a Palermo, nella chiesa di Santa Cita, accanto ai miei avi.
Lì, sotto il sepolcro del nonno Blasco Lanza, giace un sarcofago anonimo con lo stemma di famiglia e la statua di una giovane donna: forse, il mio ultimo riposo.

La storia della Baronessa di Carini attraversa il tempo

La mia storia attraversò i secoli, trasformandosi in leggenda popolare e ispirando cantastorie, poeti e artisti.
Un antico poemetto siciliano recitava:
«La megghiu stidda chi rideva in celu, povira Barunissa di Carini!»
Ne esistono più di quattrocento versioni, tramandate oralmente di generazione in generazione.
Nel 1912 il compositore Giuseppe Mulè portò la mia tragedia sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, mentre nel 1975 e nel 2007 la mia storia tornò a vivere in due celebri sceneggiati televisivi della RAI, interpretati rispettivamente da Janet Agren e Ugo Pagliai, e poi da Vittoria Puccini e Luca Argentero.

Un’anima che chiede memoria

Oggi, chi attraversa le sale del castello di Carini racconta di udire passi leggeri e sospiri lontani, come di una donna che non ha trovato pace.
“Forse è la mia voce, che ancora cerca giustizia non con rabbia, ma con dolcezza.
Non chiedo vendetta.
Chiedo solo che il mio nome non venga dimenticato.”
Perché ogni volta che qualcuno sussurra “Baronessa di Carini”, la mia anima torna a vivere tra le pietre del castello e il vento della mia amata Sicilia.

Laura Persico Pezzino

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Il mio nome è rimasto sospeso nel tempo, legato al mistero di un castello e a un delitto che ancora oggi fa vibrare le corde della memoria siciliana.
Nata il 7 ottobre 1529 nel castello di Trabia, ero la primogenita del Conte Cesare Lanza di Trabia e Mussomeli e di Lucrezia Gaetani.
A soli quattordici anni, nel dicembre del 1543, fui data in sposa a Don Vincenzo La Grua Talamanca, signore di Carini.
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Nel cuore di quella prigionia, conobbi Ludovico Vernagallo, cugino di mio marito.
Con lui nacque un sentimento puro e segreto, un amore che sfidava le regole del mio mondo.
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Non ci fu tempo per fuggire né per chiedere perdono.
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Si racconta che, colpita al petto, mi appoggiai al muro del castello, lasciando l’impronta insanguinata della mia mano, un segno che per secoli rimase visibile e venerato come simbolo di dolore eterno.
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