Quando in Sicilia le donne parlavano al vento.

Il vento come messaggero tra i vivi e i morti. In certi paesi di montagna della Sicilia, quando il vento soffiava forte e il cielo sembrava portare via le case, le donne salivano sulle alture e gridavano.
Non era follia, né rito, né spettacolo.
Era un modo per restare vive, per non soccombere al silenzio delle assenze.
Dal ciglio dei dirupi o dalle terrazze affacciate sul mare, chiamavano a voce alta i nomi dei figli, dei mariti e dei fratelli partiti per l’America, per la guerra o per la morte.
Il vento era il loro messaggero, l’unico che potesse attraversare i confini invisibili tra la terra e il cielo.
Credevano che l’aria potesse raccogliere le parole e portarle lontano, oltre l’oceano o dentro il mondo dei defunti.
“Ventu, portami la so vuci, e portagli ‘u me chiantu” sussurravano.
Era una preghiera antica, sospesa tra paganesimo e cristianesimo, tra fede e disperazione.
I “gridi d’amuri e duluri” di Gratteri
A Gratteri, nel Palermitano, questa usanza aveva un luogo preciso: la Scala, affacciata sul balzo del Carapè.
Lì, madri e spose gridavano verso la valle, chiamando i figli dispersi in America.
“Pippinu, figliu di la matri, torna… sula mi lassasti…”
Il vento restituiva un’eco spezzata, come una risposta che veniva da lontano.
Quelle donne, con lo scialle nero e il volto scavato, erano eredi inconsapevoli delle antiche prefiche, ma di un tipo diverso.
Non piangevano per mestiere, ma per necessità.
Le prefiche consolavano i lutti altrui, loro invece davano voce alla propria mancanza.
In quel pianto c’erano la casa vuota, la fame, la lettera che non arrivava.
Il dolore condiviso e la carità d’anima
A volte, quando la voce si spegneva nella stanchezza, un pastore rispondeva da valle con un grido: “Sugnu cca!” — “Sono qui!”
Era un atto di pietà, un modo per far credere che qualcuno avesse udito quei nomi.
Si diceva che chi rispondeva avesse “carità d’anima”, perché dava compagnia al dolore.
Non sempre però la voce che tornava era umana.
Alcune giuravano di aver sentito rispondere il caro defunto: un soffio, un sussurro, un nome detto al contrario dal vento.
Forse era l’eco, o forse la credenza che tra il mondo dei vivi e quello dei morti passi davvero un filo d’aria capace di unire per un istante due mondi lontani.
Un gesto senza rito, un linguaggio dell’anima
Non esisteva una regola, né una formula da imparare.
Era un gesto spontaneo, tramandato ascoltando le altre donne, come una nenia o una preghiera.
Quel grido non era solo un modo per parlare ai morti, ma anche per dire al paese: “Io soffro. Ricordatelo.”
E il paese rispondeva: con una visita, un pane, una candela, o un silenzio rispettoso.
Il silenzio del vento di oggi
Con l’arrivo del telefono e della posta, le voci smisero di salire sui monti.
Le lettere sostituirono i gridi, i telegrammi le preghiere.
Ma per decenni, il vento di Sicilia ha portato con sé i nomi di chi non tornava più.
Le più anziane ricordano ancora quelle donne vestite di nero, con il fazzoletto stretto sotto il mento, che parlavano al vento come a un vecchio confidente.
E ancora oggi, si dice che quando il vento cambia direzione all’improvviso, non bisogna parlarci sopra.
Perché tra le raffiche ci sono ancora quelle voci.
Se si tende bene l’orecchio, forse si può sentire un nome tornare indietro — piano, come una risposta attesa da troppo tempo.
LPP
Il vento come messaggero tra i vivi e i morti. In certi paesi di montagna della Sicilia, quando il vento soffiava forte e il cielo sembrava portare via le case, le donne salivano sulle alture e gridavano.
Non era follia, né rito, né spettacolo.
Era un modo per restare vive, per non soccombere al silenzio delle assenze.
Dal ciglio dei dirupi o dalle terrazze affacciate sul mare, chiamavano a voce alta i nomi dei figli, dei mariti e dei fratelli partiti per l’America, per la guerra o per la morte.
Il vento era il loro messaggero, l’unico che potesse attraversare i confini invisibili tra la terra e il cielo.
Credevano che l’aria potesse raccogliere le parole e portarle lontano, oltre l’oceano o dentro il mondo dei defunti.
“Ventu, portami la so vuci, e portagli ‘u me chiantu” sussurravano.
Era una preghiera antica, sospesa tra paganesimo e cristianesimo, tra fede e disperazione.
I “gridi d’amuri e duluri” di Gratteri
A Gratteri, nel Palermitano, questa usanza aveva un luogo preciso: la Scala, affacciata sul balzo del Carapè.
Lì, madri e spose gridavano verso la valle, chiamando i figli dispersi in America.
“Pippinu, figliu di la matri, torna… sula mi lassasti…”
Il vento restituiva un’eco spezzata, come una risposta che veniva da lontano.
Quelle donne, con lo scialle nero e il volto scavato, erano eredi inconsapevoli delle antiche prefiche, ma di un tipo diverso.
Non piangevano per mestiere, ma per necessità.
Le prefiche consolavano i lutti altrui, loro invece davano voce alla propria mancanza.
In quel pianto c’erano la casa vuota, la fame, la lettera che non arrivava.
Il dolore condiviso e la carità d’anima
A volte, quando la voce si spegneva nella stanchezza, un pastore rispondeva da valle con un grido: “Sugnu cca!” — “Sono qui!”
Era un atto di pietà, un modo per far credere che qualcuno avesse udito quei nomi.
Si diceva che chi rispondeva avesse “carità d’anima”, perché dava compagnia al dolore.
Non sempre però la voce che tornava era umana.
Alcune giuravano di aver sentito rispondere il caro defunto: un soffio, un sussurro, un nome detto al contrario dal vento.
Forse era l’eco, o forse la credenza che tra il mondo dei vivi e quello dei morti passi davvero un filo d’aria capace di unire per un istante due mondi lontani.
Un gesto senza rito, un linguaggio dell’anima
Non esisteva una regola, né una formula da imparare.
Era un gesto spontaneo, tramandato ascoltando le altre donne, come una nenia o una preghiera.
Quel grido non era solo un modo per parlare ai morti, ma anche per dire al paese: “Io soffro. Ricordatelo.”
E il paese rispondeva: con una visita, un pane, una candela, o un silenzio rispettoso.
Il silenzio del vento di oggi
Con l’arrivo del telefono e della posta, le voci smisero di salire sui monti.
Le lettere sostituirono i gridi, i telegrammi le preghiere.
Ma per decenni, il vento di Sicilia ha portato con sé i nomi di chi non tornava più.
Le più anziane ricordano ancora quelle donne vestite di nero, con il fazzoletto stretto sotto il mento, che parlavano al vento come a un vecchio confidente.
E ancora oggi, si dice che quando il vento cambia direzione all’improvviso, non bisogna parlarci sopra.
Perché tra le raffiche ci sono ancora quelle voci.
Se si tende bene l’orecchio, forse si può sentire un nome tornare indietro — piano, come una risposta attesa da troppo tempo.
LPP


















































































