Twitter e FB alle prese con i “fantasmi” che chattano.

Nella social era la morte non è più ‘a livella: il web non dimentica
La morte digitale divide invece di unire
Totò la chiamava ‘a livella, quella livella che rende tutti uguali nella morte.
Ma oggi, nell’era dei social, la morte non è più democratica.
Al contrario, amplifica differenze e disuguaglianze, trasformando anche il lutto in un fenomeno digitale, difficile da gestire.
Sempre più spesso, accade che una persona deceduta continui a vivere online.
Le sue mail, i suoi profili social, le bacheche digitali restano attivi.
Non per dimenticanza, ma perché nessuno ha il coraggio o il tempo di disattivarli.
Oppure perché, inconsciamente, familiari e amici trovano conforto in quella presenza virtuale.
I numeri di un fenomeno ormai globale
Secondo stime aggiornate, ogni giorno oltre 8.000 utenti dei social network muoiono.
In un anno, fanno più di un milione di profili “attivi” appartenenti a persone decedute.
Solo su Facebook, con i suoi 1,65 miliardi di iscritti, si parla già oggi di milioni di account commemorativi.
E se il trend dovesse proseguire, entro il 2098 i profili dei morti supereranno quelli dei vivi, come ha osservato anche la BBC, definendo la piattaforma un vero e proprio “cimitero digitale”.
Su Twitter, con oltre 320 milioni di account attivi, la situazione è simile.
Migliaia di account appartengono a persone scomparse, e non è raro imbattersi in profili che continuano a essere seguiti, commentati, condivisi.
Il divario tra vita reale e vita online
Il funerale resta un rito fondamentale, ma spesso non è sufficiente a chiudere il cerchio.
Nella social era, la morte non spegne del tutto la presenza, ma la sposta su un altro piano: quello digitale.
Il corpo se ne va, ma la voce resta.
Le foto, i video, i post, le conversazioni archiviate nei social diventano un’eco infinita.
E quella pagina Facebook, quel profilo Instagram o quell’email lasciata aperta diventano spazi di memoria sospesi.
Per alcuni, sono luoghi di conforto.
Per altri, un peso che ricorda quotidianamente una perdita mai davvero elaborata.
Facebook e Twitter corrono ai ripari
Il problema ha ormai raggiunto un livello di guardia globale.
Tanto che le big tech hanno deciso di intervenire.
Facebook ha introdotto da tempo la possibilità di trasformare il profilo in un account commemorativo o designare un contatto erede.
Twitter, invece, prevede la rimozione dell’account su richiesta dei familiari, ma solo dopo un processo burocratico spesso complesso.
Nonostante ciò, le soluzioni proposte non coprono tutte le sfumature del lutto digitale.
E spesso, i profili continuano a vivere per anni, senza che nessuno li gestisca.
Il bisogno di una nuova educazione digitale al lutto
In un mondo in cui tutto passa per il web, la morte non fa eccezione.
Eppure, pochi di noi si preparano a gestire l’eredità digitale.
Pochissimi designano un erede online.
Ancora meno sono informati su come chiudere un account dopo la morte.
È tempo di una nuova cultura del ricordo, che sappia unire diritti digitali, rispetto della memoria e gestione consapevole.
Perché la vera ‘a livella 2.0 non è più una lapide di marmo.
È un profilo social non aggiornato.
È una notifica che appare all’improvviso.
È il post di compleanno di chi non c’è più.
Conclusione: morire ai tempi del web
La morte, oggi, non spegne tutto.
Rimane una traccia online, un’identità digitale che continua a esistere.
E se non siamo noi a gestirla, saranno gli algoritmi e le policy delle piattaforme a farlo.
Per questo è importante iniziare a parlarne, a informarsi, a decidere.
Perché anche la morte, come ogni cosa nel mondo digitale, va pianificata.
E perché in rete, come nella vita, il rispetto si dimostra anche con un ultimo gesto consapevole.
Nella social era la morte non è più ‘a livella: il web non dimentica
La morte digitale divide invece di unire
Totò la chiamava ‘a livella, quella livella che rende tutti uguali nella morte.
Ma oggi, nell’era dei social, la morte non è più democratica.
Al contrario, amplifica differenze e disuguaglianze, trasformando anche il lutto in un fenomeno digitale, difficile da gestire.
Sempre più spesso, accade che una persona deceduta continui a vivere online.
Le sue mail, i suoi profili social, le bacheche digitali restano attivi.
Non per dimenticanza, ma perché nessuno ha il coraggio o il tempo di disattivarli.
Oppure perché, inconsciamente, familiari e amici trovano conforto in quella presenza virtuale.
I numeri di un fenomeno ormai globale
Secondo stime aggiornate, ogni giorno oltre 8.000 utenti dei social network muoiono.
In un anno, fanno più di un milione di profili “attivi” appartenenti a persone decedute.
Solo su Facebook, con i suoi 1,65 miliardi di iscritti, si parla già oggi di milioni di account commemorativi.
E se il trend dovesse proseguire, entro il 2098 i profili dei morti supereranno quelli dei vivi, come ha osservato anche la BBC, definendo la piattaforma un vero e proprio “cimitero digitale”.
Su Twitter, con oltre 320 milioni di account attivi, la situazione è simile.
Migliaia di account appartengono a persone scomparse, e non è raro imbattersi in profili che continuano a essere seguiti, commentati, condivisi.
Il divario tra vita reale e vita online
Il funerale resta un rito fondamentale, ma spesso non è sufficiente a chiudere il cerchio.
Nella social era, la morte non spegne del tutto la presenza, ma la sposta su un altro piano: quello digitale.
Il corpo se ne va, ma la voce resta.
Le foto, i video, i post, le conversazioni archiviate nei social diventano un’eco infinita.
E quella pagina Facebook, quel profilo Instagram o quell’email lasciata aperta diventano spazi di memoria sospesi.
Per alcuni, sono luoghi di conforto.
Per altri, un peso che ricorda quotidianamente una perdita mai davvero elaborata.
Facebook e Twitter corrono ai ripari
Il problema ha ormai raggiunto un livello di guardia globale.
Tanto che le big tech hanno deciso di intervenire.
Facebook ha introdotto da tempo la possibilità di trasformare il profilo in un account commemorativo o designare un contatto erede.
Twitter, invece, prevede la rimozione dell’account su richiesta dei familiari, ma solo dopo un processo burocratico spesso complesso.
Nonostante ciò, le soluzioni proposte non coprono tutte le sfumature del lutto digitale.
E spesso, i profili continuano a vivere per anni, senza che nessuno li gestisca.
Il bisogno di una nuova educazione digitale al lutto
In un mondo in cui tutto passa per il web, la morte non fa eccezione.
Eppure, pochi di noi si preparano a gestire l’eredità digitale.
Pochissimi designano un erede online.
Ancora meno sono informati su come chiudere un account dopo la morte.
È tempo di una nuova cultura del ricordo, che sappia unire diritti digitali, rispetto della memoria e gestione consapevole.
Perché la vera ‘a livella 2.0 non è più una lapide di marmo.
È un profilo social non aggiornato.
È una notifica che appare all’improvviso.
È il post di compleanno di chi non c’è più.
Conclusione: morire ai tempi del web
La morte, oggi, non spegne tutto.
Rimane una traccia online, un’identità digitale che continua a esistere.
E se non siamo noi a gestirla, saranno gli algoritmi e le policy delle piattaforme a farlo.
Per questo è importante iniziare a parlarne, a informarsi, a decidere.
Perché anche la morte, come ogni cosa nel mondo digitale, va pianificata.
E perché in rete, come nella vita, il rispetto si dimostra anche con un ultimo gesto consapevole.


















































































