Fosse comuni nel deserto e un forte richiamo al più grande genocidio della storia.

Il fresco XXI secolo è già delineato da conflitti e migrazioni di popoli. Il pretesto religioso, appiglio di vecchia data abusato per infervorare i popoli, funziona ancora, miccia che fa esplodere l’odio, il conflitto, l’ode all’annientamento e al genocidio: le fosse comuni del califfato venute alla luce ne sono una triste testimonianza. Sono ancora vive le coscienze delle stragi risalenti al secolo scorso e turchi, curdi, sciiti e sunniti sono nuovamente alle prese con secolari cavilli da regolare tra le sabbie zeppe di oro nero. Bassezze dell’uomo, ingordigia del potere, cicli dei cicli della storia.

Questo territorio era l’ultimo ostacolo per l’invasione bianca nella sua travolgente conquista del West e come è andata a finire lo sappiamo bene adesso, perché prima i vincitori fecero propaganda di se stessi attraverso la nuova arte del cinema, inventando il western, nuovo genere che esaltava l’eroismo dei conquistatori e mortificava la cultura dei pellerossa. Pellicole “capolavori” nel bene e nel male, palcoscenico per mostri sacri di Hollywood e per l’inimitabile regia di John Ford. Oggi è il grande schermo che ha restituito dignitosa verità storica e antropologica allo sterminio dei nativi americani partendo da opere coraggiose come “Il piccolo grande uomo” del 1970, fino a più chiare ricostruzioni. Impedibile è “L’ultimo pellerossa” del 2007, tratto da “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”, romanzo di Dee Brown, autore di sangue indiano.
La storia di un genocidio che non si poteva più tacere lentamente si riscrive consegnandoci una sanguinaria avanzata da parte di uomini senza scrupoli. Coloni, avventurieri, speculatori che invasero l’America, sospinti dal mito della frontiera e dal luccichio dell’oro con il benestare di prelati, uomini politici e banchieri consenzienti. Simbolo del sanguinario epilogo la ferrovia che nel 1869 unì la costa atlantica e quella del Pacifico, facendo degli Stati Uniti un unico paese che aveva spazzato dal contenente la frammentata, millenaria e fragile civiltà indiana, ricca di tradizioni e di sopraffine conoscenze perdute per sempre. Un insieme di etnie incapaci di opporsi alle subdole strategie e alla forza militare degli invasori. Le tribù più forti e combattive, guidate da leggendari capi, iniziarono con molto ritardo un trentennio d’improvvisata guerriglia che si concluse con la decimazione degli indiani, vinti non solo dalla superiorità delle armi, ma anche dalla infame strage pianificata dei bisonti (3.700.000 capi solo dal 1872 al 1874), prima disgregazione delle basi culturali e di sostentamento sulle quali si reggeva quella società.
Oggi i nativi americani contano 30.000 unità, sono ancora discriminati e confinati in aree marginali. È dunque da una cinquantina d’anni soltanto che la vera storia dello sterminio dei pellerossa sta lentamente trovando dignità, ma c’è ancora molto da fare. È solo una fetta di quanto le orde di europei applicarono ai popoli americani nel nome della civiltà. L’America è lunga e una prolungata fetta di territorio al sud degli Usa fino al circolo polare antartico aspetta un momento di celata verità su altri genocidi sepolti tra le foreste della dimenticanza. Questa è un po’ di storia spicciola per arrivare a un momento di riflessione su ciò che siamo, su ciò che sta accadendo adesso, su cosa guida la mano più tremenda e più assassina dell’uomo e su quello che sarà in futuro in questo mondo dalla coscienza sporca e sepolta in una immensa fossa comune di umane bestialità impunite. Orrori di grida prevaricazioni e sangue: olocausti consumati sempre nel nome di un Dio. Qualsiasi sia quello “vero”, non potrà esserne mai e poi mai minimamente fiero.
Carlo Mariano Sartoris
Il fresco XXI secolo è già delineato da conflitti e migrazioni di popoli. Il pretesto religioso, appiglio di vecchia data abusato per infervorare i popoli, funziona ancora, miccia che fa esplodere l’odio, il conflitto, l’ode all’annientamento e al genocidio: le fosse comuni del califfato venute alla luce ne sono una triste testimonianza. Sono ancora vive le coscienze delle stragi risalenti al secolo scorso e turchi, curdi, sciiti e sunniti sono nuovamente alle prese con secolari cavilli da regolare tra le sabbie zeppe di oro nero. Bassezze dell’uomo, ingordigia del potere, cicli dei cicli della storia.

Questo territorio era l’ultimo ostacolo per l’invasione bianca nella sua travolgente conquista del West e come è andata a finire lo sappiamo bene adesso, perché prima i vincitori fecero propaganda di se stessi attraverso la nuova arte del cinema, inventando il western, nuovo genere che esaltava l’eroismo dei conquistatori e mortificava la cultura dei pellerossa. Pellicole “capolavori” nel bene e nel male, palcoscenico per mostri sacri di Hollywood e per l’inimitabile regia di John Ford. Oggi è il grande schermo che ha restituito dignitosa verità storica e antropologica allo sterminio dei nativi americani partendo da opere coraggiose come “Il piccolo grande uomo” del 1970, fino a più chiare ricostruzioni. Impedibile è “L’ultimo pellerossa” del 2007, tratto da “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”, romanzo di Dee Brown, autore di sangue indiano.
La storia di un genocidio che non si poteva più tacere lentamente si riscrive consegnandoci una sanguinaria avanzata da parte di uomini senza scrupoli. Coloni, avventurieri, speculatori che invasero l’America, sospinti dal mito della frontiera e dal luccichio dell’oro con il benestare di prelati, uomini politici e banchieri consenzienti. Simbolo del sanguinario epilogo la ferrovia che nel 1869 unì la costa atlantica e quella del Pacifico, facendo degli Stati Uniti un unico paese che aveva spazzato dal contenente la frammentata, millenaria e fragile civiltà indiana, ricca di tradizioni e di sopraffine conoscenze perdute per sempre. Un insieme di etnie incapaci di opporsi alle subdole strategie e alla forza militare degli invasori. Le tribù più forti e combattive, guidate da leggendari capi, iniziarono con molto ritardo un trentennio d’improvvisata guerriglia che si concluse con la decimazione degli indiani, vinti non solo dalla superiorità delle armi, ma anche dalla infame strage pianificata dei bisonti (3.700.000 capi solo dal 1872 al 1874), prima disgregazione delle basi culturali e di sostentamento sulle quali si reggeva quella società.
Oggi i nativi americani contano 30.000 unità, sono ancora discriminati e confinati in aree marginali. È dunque da una cinquantina d’anni soltanto che la vera storia dello sterminio dei pellerossa sta lentamente trovando dignità, ma c’è ancora molto da fare. È solo una fetta di quanto le orde di europei applicarono ai popoli americani nel nome della civiltà. L’America è lunga e una prolungata fetta di territorio al sud degli Usa fino al circolo polare antartico aspetta un momento di celata verità su altri genocidi sepolti tra le foreste della dimenticanza. Questa è un po’ di storia spicciola per arrivare a un momento di riflessione su ciò che siamo, su ciò che sta accadendo adesso, su cosa guida la mano più tremenda e più assassina dell’uomo e su quello che sarà in futuro in questo mondo dalla coscienza sporca e sepolta in una immensa fossa comune di umane bestialità impunite. Orrori di grida prevaricazioni e sangue: olocausti consumati sempre nel nome di un Dio. Qualsiasi sia quello “vero”, non potrà esserne mai e poi mai minimamente fiero.
Carlo Mariano Sartoris

















































































