Addio a Sebastião Salgado, l’uomo che fotografava l’anima del mondo.

23 Maggio 2025 - 20:30--Cultura, Lutto-

Sebastião Salgado è morto.
Fotografo, viaggiatore, umanista.
Narratore instancabile delle ingiustizie e della bellezza della Terra.

La notizia della sua scomparsa è confermata dall’Instituto Terra, fondato da lui e da sua moglie Lélia Wanick Salgado.
Poco dopo, la famiglia ha comunicato che la causa della morte è stata una leucemia.

Il suo nome è scolpito accanto a quelli di Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e Robert Frank.
Il suo sguardo sul mondo attraverso l’obiettivo: unico e inconfondibile.
Il suo bianco e nero: un grido silenzioso sul precipizio del mondo.

Sebastião Salgado: una vita oltre l’obiettivo

Nato in Brasile, nel 1944, Salgado dopo aver studiato economia a San Paolo, si trasferisce a Parigi per un master e poi a Londra per lavorare come economista. Viaggia in Africa per conto della World Bank e qui inizia a scattare le sue prime fotografie. 
E non si torna indietro dopo aver visto il mondo con gli occhi della luce.

Nel 1972 lascia tutto per dedicarsi completamente alla fotografia.

Nel 1964 conosce l’autrice e produttrice cinematografica Lélia Wanick, che sposa tre anni dopo e con cui ha collaborato per tutta la sua carriera.
Torna a Parigi con Lélia, la compagna di una vita e l’artefice invisibile della sua carriera e nel 1979 inizia a lavorare per l’agenzia fotografica Magnum Photos.
Ma nel 1994 decide di seguire un sentiero indipendente, fondando insieme alla moglie Amazonas Images, un’agenzia pensata su misura per i suoi progetti.

Workers, Exodus, Genesis: il mondo secondo Salgado

Salgado è il fotografo delle grandi transizioni.
Workers, il suo progetto più celebre, è un omaggio al lavoro manuale.
Un viaggio di sei anni, in 26 paesi, per raccontare con rispetto e poesia chi lavora con le mani, nel sudore, nella polvere.

Migrations, realizzato in quindici anni, è il racconto epico degli spostamenti di massa del nostro tempo.
Le sue immagini parlano di abbandoni, speranze, città che inghiottono, periferie che esplodono.
Quarantatré paesi, milioni di volti.
Un’unica domanda sospesa: dove andiamo?

Poi, a partire dai primi anni Duemila, Salgado cambia passo.
Ritorna alla natura, dopo l’orrore visto in Ruanda.
Genesis, realizzato tra il 2004 e il 2011, è un inno alla Terra.
Dalle Galápagos all’Antartide, dai deserti africani alle montagne dell’Alaska, Salgado fotografa un mondo ancora intatto, ancora possibile.

L’ultima grande missione: l’Instituto Terra

Dopo aver documentato la distruzione, Salgado ha deciso di ricostruire.
Lì dove era nato, in Brasile, fonda con Lélia l’Instituto Terra.
Un progetto visionario: riforestare la Mata Atlântica, devastata dal disboscamento.
Milioni di alberi piantati, una biodiversità rinata.
Dove c’era il deserto, ora c’è di nuovo vita.

 

Sebastião Salgado: l’immagine che resta

Nel 2014 il regista Wim Wenders gli dedica Il sale della terra, un documentario profondo e commovente.
La pellicola riceve la nomination all’Oscar.
Ma l’opera più potente resta quella fissata sulla pellicola.

Sebastião Salgado: fotografava il dolore, ma anche la speranza.
Fotografava la fine, ma anche l’inizio.
Fotografava il mondo.
E lo faceva per tutti noi.

Il funerale si terrà in forma privata, circondato da alberi piantati con amore.
Nel silenzio di quella foresta, l’obiettivo si è spento.
Ma le sue immagini continueranno a parlare.
A scuoterci, a interrogarci, a educarci.

Perché Sebastião Salgado non fotografava solo ciò che vedeva.
Fotografava ciò che ci ostiniamo a non vedere.

LPP

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Sebastião Salgado è morto.
Fotografo, viaggiatore, umanista.
Narratore instancabile delle ingiustizie e della bellezza della Terra.

La notizia della sua scomparsa è confermata dall’Instituto Terra, fondato da lui e da sua moglie Lélia Wanick Salgado.
Poco dopo, la famiglia ha comunicato che la causa della morte è stata una leucemia.

Il suo nome è scolpito accanto a quelli di Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e Robert Frank.
Il suo sguardo sul mondo attraverso l’obiettivo: unico e inconfondibile.
Il suo bianco e nero: un grido silenzioso sul precipizio del mondo.

Sebastião Salgado: una vita oltre l’obiettivo

Nato in Brasile, nel 1944, Salgado dopo aver studiato economia a San Paolo, si trasferisce a Parigi per un master e poi a Londra per lavorare come economista. Viaggia in Africa per conto della World Bank e qui inizia a scattare le sue prime fotografie. 
E non si torna indietro dopo aver visto il mondo con gli occhi della luce.

Nel 1972 lascia tutto per dedicarsi completamente alla fotografia.

Nel 1964 conosce l’autrice e produttrice cinematografica Lélia Wanick, che sposa tre anni dopo e con cui ha collaborato per tutta la sua carriera.
Torna a Parigi con Lélia, la compagna di una vita e l’artefice invisibile della sua carriera e nel 1979 inizia a lavorare per l’agenzia fotografica Magnum Photos.
Ma nel 1994 decide di seguire un sentiero indipendente, fondando insieme alla moglie Amazonas Images, un’agenzia pensata su misura per i suoi progetti.

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Salgado è il fotografo delle grandi transizioni.
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Migrations, realizzato in quindici anni, è il racconto epico degli spostamenti di massa del nostro tempo.
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Poi, a partire dai primi anni Duemila, Salgado cambia passo.
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Dopo aver documentato la distruzione, Salgado ha deciso di ricostruire.
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