Le “chiangimorti” di Catania: l’arte perduta del pianto rituale.

chiangimorti Catania

Le “chiangimorti” di Catania: il pianto rituale funebre. Esprimere il dolore del lutto con il canto e la memoria collettiva

Le “chiangimorti” di Catania: l’arte perduta del pianto rituale.

A Catania, per andare al cimitero dei Tri Canceddri, si passava per forza dalla Piazza Battaglia di Palestro.
Ma nessuno la chiamava così.
Per tutti era ‘U Chianu d’i Minzogni (il piano delle menzogne n.d.r.).
Non perché si mentisse davvero, ma perché lì — tra carri funebri e comitive di parenti — si recitava l’ultimo addio al morto.
Un addio fatto di parole, grida, pianti.
A volte sinceri, a volte esagerati.

E quando mancavano parenti o lacrime, arrivavano loro: le chiangimorti.
Donne del popolo, prefiche esperte, pagate per piangere.
Non attrici, ma professioniste del dolore.
Piangevano sì, ma non solo per quel defunto.
Piangevano i propri morti, quelli veri, quelli sepolti troppo in fretta.
E ogni funerale era per loro una soglia: un’occasione per liberare un lutto mai spento.

Il linguaggio segreto del lamento funebre

Quella del pianto rituale non era improvvisazione.
Era un’arte codificata, con nomi e tecniche precise: rrièpitu, strèpitu, trìulu, rriòrdutu.
Ogni frase durava sette secondi e mezzo, intonata su un intervallo esatto.
Si invocavano i defunti con grida strazianti, spesso concluse da un “maritu miu!” sussurrato con voce spezzata.
E poi c’era il corpo: ci si graffiava le guance, ci si tiravano i capelli, si lasciavano ciocche nella bara.
Il dolore aveva una grammatica.
Teatrale e sincera al tempo stesso.

Una tradizione perseguitata ma mai spenta

La Chiesa non amava quel genere di spettacolo.
Il Cristianesimo chiedeva misura: piangere troppo era mancanza di fede.
E allora sinodi, editti, sanzioni.
Nel 1309, Federico II d’Aragona proibì ufficialmente le reputatrici.
Chi si lamentava troppo forte, veniva multata o frustata.
Ma il pianto continuava, ostinato, come una lingua sotterranea.

Nel frattempo, la morte diventava spettacolo borghese.
I funerali ricchi si facevano con la banda muta: strumenti sotto il braccio, nessuna nota.
Un silenzio studiato, estetico.
Non per povertà, ma per scelta.
Anche il dolore, ormai, doveva avere stile.

Oggi: un dolore silenzioso e senza grammatica

Oggi, delle “chiangimorti” resta solo qualche eco solitaria tra i cipressi.
Una nenia sommessa, una vecchia che parla ai morti suoi.
Dove non riuscirono papi né re, è riuscito il laicismo moderno:
la morte è diventata un fatto privato, senza grammatica né voce.
Il dolore ha imparato a defilarsi.

Ma chi sa ascoltare, chi ha orecchio per i silenzi, può ancora riconoscere un frammento di rriòrdutu, un grido antico sepolto sotto il tempo.
Non è nostalgia.
È memoria viva.
È il pianto di quelle donne che, con voce e corpo, costruivano un ponte sacro tra chi resta e chi se ne va.

E forse, in un mondo che non sa più piangere, vale la pena ricordarle.
Perché un mondo senza pianto è un mondo che non sa più raccontarsi.

Laura Persico Pezzino

Fonti :
ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO – Sergio Bonanzinga -Riti musicali del cordoglio in Sicilia – Prefiche Reputatrici, il morto si piange a pagamento!
Di Santi Maria Randazzo, ecodegliblei – ” IL CICLO DELLA VITA E IL RITO DELLA MORTE: LA SICILIA, LA DONNA E LA ´GRANDE MADRE´ ” prof. Francesco Ereddia.

 

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Le “chiangimorti” di Catania: l’arte perduta del pianto rituale.

Le “chiangimorti” di Catania: il pianto rituale funebre. Esprimere il dolore del lutto con il canto e la memoria collettiva

Le “chiangimorti” di Catania: l’arte perduta del pianto rituale.

A Catania, per andare al cimitero dei Tri Canceddri, si passava per forza dalla Piazza Battaglia di Palestro.
Ma nessuno la chiamava così.
Per tutti era ‘U Chianu d’i Minzogni (il piano delle menzogne n.d.r.).
Non perché si mentisse davvero, ma perché lì — tra carri funebri e comitive di parenti — si recitava l’ultimo addio al morto.
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E quando mancavano parenti o lacrime, arrivavano loro: le chiangimorti.
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Non attrici, ma professioniste del dolore.
Piangevano sì, ma non solo per quel defunto.
Piangevano i propri morti, quelli veri, quelli sepolti troppo in fretta.
E ogni funerale era per loro una soglia: un’occasione per liberare un lutto mai spento.

Il linguaggio segreto del lamento funebre

Quella del pianto rituale non era improvvisazione.
Era un’arte codificata, con nomi e tecniche precise: rrièpitu, strèpitu, trìulu, rriòrdutu.
Ogni frase durava sette secondi e mezzo, intonata su un intervallo esatto.
Si invocavano i defunti con grida strazianti, spesso concluse da un “maritu miu!” sussurrato con voce spezzata.
E poi c’era il corpo: ci si graffiava le guance, ci si tiravano i capelli, si lasciavano ciocche nella bara.
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