Epitaffi d’autore. Saigyō, monaco e poeta giapponese.

Epitaffi d’Autore, l’ultima parola prima della parola “fine”.
Alcuni se ne vanno in punta di piedi, altri improvvisamente, quasi con un “colpo di teatro”.
In questa rubrica, che abbiamo chiamato Epitaffi d’Autore, vogliamo dare “l’ultima parola” a coloro, noti e meno noti, che hanno saputo lasciare il segno… con una sola frase.
Epitaffi che fanno pensare e persino sorridere.
Perché anche la fine, se scritta bene, merita un applauso.
Saigyō, il monaco poeta
Saigyō (1118–1190) fu un poeta giapponese del periodo Heian.
Ex samurai, lasciò la carriera militare per farsi monaco e vivere da pellegrino, immerso nella natura e nella solitudine.
Scrisse centinaia di componimenti che ancora oggi sono letti come capolavori della poesia giapponese.
Il suo tono è meditativo, malinconico, attraversato da una sensibilità profonda per l’impermanenza delle cose.
Alla fine della sua vita, scrisse un tanka che ha la forza di un testamento spirituale.
Un epitaffio ideale.
Il tanka di Saigyō
願はくは 花の下にて 春死なむ
その如月の 望月のころ
Negawaku wa / hana no shita nite / haru shinan /
sono kisaragi no / mochizuki no koro
Il mio desiderio:
morire sotto i fiori
in primavera,
quando la luna piena
splende in Kisagatsu.
Saigyō sperava di morire sotto i ciliegi in fiore, con la luna piena sopra di lui, in primavera.
Un’immagine di bellezza perfetta, ma anche effimera — come la vita.
Quel desiderio si avverò: morì davvero durante il secondo mese lunare (kisaragi), vicino alla luna piena.
Cos’è un tanka?
Il tanka (短歌, letteralmente “poesia breve”) è una forma poetica giapponese antichissima, composta da cinque versi secondo lo schema sillabico 5-7-5-7-7.
Appartiene alla tradizione della waka, la poesia classica giapponese.
Rispetto all’…haiku, il tanka è più lungo e spesso più personale.
Permette di esprimere sentimenti profondi, riflessioni spirituali e immagini della natura.
Era largamente usato nella corte imperiale, ma anche da monaci, amanti, pellegrini.
Molti tanka sono stati composti come poesie d’addio, lasciate poco prima della morte.
Proprio come quello di Saigyō.
E cos’è un haiku?
L’haiku (価句) è una forma poetica giapponese più recente e ancora più breve: tre versi con schema 5-7-5.
Rispetto al tanka, l’haiku è più essenziale e si concentra spesso su un attimo presente, descritto con precisione e sobrietà.
La natura è il tema più frequente, insieme alla stagione evocata attraverso un kigo (parola stagionale).
Gli haiku non spiegano, non dichiarano emozioni: le suggeriscono attraverso immagini semplici, spesso simboliche.
Ecco un esempio:
Ecco l’addio,
come ogni cosa passo,
gocce sull’erba.
(Haiku di commiato attribuito al monaco zen Banzan)
Nel silenzio di pochi versi, si condensa un’intera visione della vita e della morte.
Un epitaffio lieve come un fiore di ciliegio
L’ultimo desiderio di Saigyō è un’uscita di scena poetica, silenziosa e piena di grazia.
Non parla di se stesso, né elenca gesta o conquiste.
Chiede solo di morire nella bellezza.
Quel tanka è diventato il suo epitaffio ideale.
Un’ultima parola che non chiude, ma sussurra.
Che non pesa come una lapide, ma si posa come un petalo.
Epitaffi d’Autore, l’ultima parola prima della parola “fine”.
Alcuni se ne vanno in punta di piedi, altri improvvisamente, quasi con un “colpo di teatro”.
In questa rubrica, che abbiamo chiamato Epitaffi d’Autore, vogliamo dare “l’ultima parola” a coloro, noti e meno noti, che hanno saputo lasciare il segno… con una sola frase.
Epitaffi che fanno pensare e persino sorridere.
Perché anche la fine, se scritta bene, merita un applauso.
Saigyō, il monaco poeta
Saigyō (1118–1190) fu un poeta giapponese del periodo Heian.
Ex samurai, lasciò la carriera militare per farsi monaco e vivere da pellegrino, immerso nella natura e nella solitudine.
Scrisse centinaia di componimenti che ancora oggi sono letti come capolavori della poesia giapponese.
Il suo tono è meditativo, malinconico, attraversato da una sensibilità profonda per l’impermanenza delle cose.
Alla fine della sua vita, scrisse un tanka che ha la forza di un testamento spirituale.
Un epitaffio ideale.
Il tanka di Saigyō
願はくは 花の下にて 春死なむ
その如月の 望月のころ
Negawaku wa / hana no shita nite / haru shinan /
sono kisaragi no / mochizuki no koro
Il mio desiderio:
morire sotto i fiori
in primavera,
quando la luna piena
splende in Kisagatsu.
Saigyō sperava di morire sotto i ciliegi in fiore, con la luna piena sopra di lui, in primavera.
Un’immagine di bellezza perfetta, ma anche effimera — come la vita.
Quel desiderio si avverò: morì davvero durante il secondo mese lunare (kisaragi), vicino alla luna piena.
Cos’è un tanka?
Il tanka (短歌, letteralmente “poesia breve”) è una forma poetica giapponese antichissima, composta da cinque versi secondo lo schema sillabico 5-7-5-7-7.
Appartiene alla tradizione della waka, la poesia classica giapponese.
Rispetto all’…haiku, il tanka è più lungo e spesso più personale.
Permette di esprimere sentimenti profondi, riflessioni spirituali e immagini della natura.
Era largamente usato nella corte imperiale, ma anche da monaci, amanti, pellegrini.
Molti tanka sono stati composti come poesie d’addio, lasciate poco prima della morte.
Proprio come quello di Saigyō.
E cos’è un haiku?
L’haiku (価句) è una forma poetica giapponese più recente e ancora più breve: tre versi con schema 5-7-5.
Rispetto al tanka, l’haiku è più essenziale e si concentra spesso su un attimo presente, descritto con precisione e sobrietà.
La natura è il tema più frequente, insieme alla stagione evocata attraverso un kigo (parola stagionale).
Gli haiku non spiegano, non dichiarano emozioni: le suggeriscono attraverso immagini semplici, spesso simboliche.
Ecco un esempio:
Ecco l’addio,
come ogni cosa passo,
gocce sull’erba.
(Haiku di commiato attribuito al monaco zen Banzan)
Nel silenzio di pochi versi, si condensa un’intera visione della vita e della morte.
Un epitaffio lieve come un fiore di ciliegio
L’ultimo desiderio di Saigyō è un’uscita di scena poetica, silenziosa e piena di grazia.
Non parla di se stesso, né elenca gesta o conquiste.
Chiede solo di morire nella bellezza.
Quel tanka è diventato il suo epitaffio ideale.
Un’ultima parola che non chiude, ma sussurra.
Che non pesa come una lapide, ma si posa come un petalo.