Jhator: il funerale celeste tibetano che dona il corpo agli avvoltoi.

Nel cuore dell’Himalaya, tra le vette del Tibet e del Nepal, esiste un rito funebre tanto sacro quanto sorprendente: il Jhator, noto come funerale celeste tibetano.
Il corpo del defunto, secondo questa pratica millenaria, viene smembrato e offerto in pasto agli avvoltoi, considerati animali sacri nel buddismo tibetano.
Non si tratta di una cerimonia macabra, ma di un atto profondamente spirituale, basato su compassione, altruismo e rispetto per la natura.
Il significato religioso del Jhator, il funerale celeste tibetano
Nella filosofia buddista il corpo è solo un involucro temporaneo.
Dopo la morte, l’anima intraprende un nuovo cammino verso la rinascita, lasciando il corpo come ultimo dono alla Terra.
In particolare, la tradizione Bön del buddismo tibetano crede che l’anima possa vagare fino a 49 giorni prima di reincarnarsi.
Offrire il proprio corpo agli avvoltoi, i Dakini, diventa così l’ultimo gesto di carità del defunto: alimentare un’altra creatura e contribuire al ciclo della vita.
Jhator funerale celeste tibetano: un rito dettato anche dalla geografia
Oltre alla valenza spirituale, il funerale celeste tibetano risponde anche a necessità pratiche.
Le altitudini del Tibet e del Nepal rendono difficile scavare sepolture nel terreno gelato o reperire legname per le cremazioni.
In questo contesto, lo Jhator rappresenta una soluzione ecosostenibile e perfettamente in armonia con l’ambiente.
La cerimonia: un viaggio verso il cielo
Il rituale si svolge in luoghi remoti, spesso in alta quota, dove la “vicinanza al cielo” assume anche un valore simbolico.
Il corpo può essere mantenuto in posizione seduta per uno o due giorni, mentre i monaci recitano preghiere per guidare l’anima nel suo percorso.
Successivamente viene smembrato da figure specializzate, i rogyapa, che preparano le spoglie per gli avvoltoi.
Anche cervello e ossa possono essere frantumati e mescolati con farina e burro, per facilitarne la consumazione da parte degli uccelli.
Le parti residue vengono eventualmente bruciate, sepolte o sparse sul terreno, chiudendo simbolicamente il cerchio della vita.
Un rito intrasferibile, ma profondamente significativo
Lo Jhator è un rituale strettamente legato alla cultura e alla religione tibetana.
In Paesi come l’Italia o altri Stati occidentali, sarebbe proibito per via delle normative sanitarie e giuridiche sui resti umani.
Tuttavia, non si può ignorare il messaggio profondo che trasmette: un invito al distacco dal materiale, all’armonia con la natura e alla generosità anche oltre la morte.
LPP
Nel cuore dell’Himalaya, tra le vette del Tibet e del Nepal, esiste un rito funebre tanto sacro quanto sorprendente: il Jhator, noto come funerale celeste tibetano.
Il corpo del defunto, secondo questa pratica millenaria, viene smembrato e offerto in pasto agli avvoltoi, considerati animali sacri nel buddismo tibetano.
Non si tratta di una cerimonia macabra, ma di un atto profondamente spirituale, basato su compassione, altruismo e rispetto per la natura.
Il significato religioso del Jhator, il funerale celeste tibetano
Nella filosofia buddista il corpo è solo un involucro temporaneo.
Dopo la morte, l’anima intraprende un nuovo cammino verso la rinascita, lasciando il corpo come ultimo dono alla Terra.
In particolare, la tradizione Bön del buddismo tibetano crede che l’anima possa vagare fino a 49 giorni prima di reincarnarsi.
Offrire il proprio corpo agli avvoltoi, i Dakini, diventa così l’ultimo gesto di carità del defunto: alimentare un’altra creatura e contribuire al ciclo della vita.
Jhator funerale celeste tibetano: un rito dettato anche dalla geografia
Oltre alla valenza spirituale, il funerale celeste tibetano risponde anche a necessità pratiche.
Le altitudini del Tibet e del Nepal rendono difficile scavare sepolture nel terreno gelato o reperire legname per le cremazioni.
In questo contesto, lo Jhator rappresenta una soluzione ecosostenibile e perfettamente in armonia con l’ambiente.
La cerimonia: un viaggio verso il cielo
Il rituale si svolge in luoghi remoti, spesso in alta quota, dove la “vicinanza al cielo” assume anche un valore simbolico.
Il corpo può essere mantenuto in posizione seduta per uno o due giorni, mentre i monaci recitano preghiere per guidare l’anima nel suo percorso.
Successivamente viene smembrato da figure specializzate, i rogyapa, che preparano le spoglie per gli avvoltoi.
Anche cervello e ossa possono essere frantumati e mescolati con farina e burro, per facilitarne la consumazione da parte degli uccelli.
Le parti residue vengono eventualmente bruciate, sepolte o sparse sul terreno, chiudendo simbolicamente il cerchio della vita.
Un rito intrasferibile, ma profondamente significativo
Lo Jhator è un rituale strettamente legato alla cultura e alla religione tibetana.
In Paesi come l’Italia o altri Stati occidentali, sarebbe proibito per via delle normative sanitarie e giuridiche sui resti umani.
Tuttavia, non si può ignorare il messaggio profondo che trasmette: un invito al distacco dal materiale, all’armonia con la natura e alla generosità anche oltre la morte.
LPP






































































