Le «pulizie della morte»: diventare adulti chiudendo la casa dei genitori.

Le “pulizie della morte”. Chiudere la casa dei propri genitori dopo la loro scomparsa è un’esperienza che lascia il segno.
Non è solo una questione pratica di svuotare stanze, mobili e cassetti.
È come premere il tasto “rewind” e riavvolgere il nastro della propria vita.
Davanti agli oggetti di ogni giorno – quelli che avevano accompagnato l’infanzia, il tumulto dell’adolescenza, e poi erano stati lasciati alle spalle nell’età adulta – si riaprono ferite, si risvegliano ricordi sopiti.
Quelle collezioni di vecchie riviste, quei libri ingialliti, i dischi ormai muti e le racchette da tennis dimenticate: ogni cosa riaffiora come testimone silenziosa di una storia familiare che sembra lontana, e invece è ancora lì, viva, a un passo dal cuore.
Ogni oggetto, ogni mobile, ogni soprammobile ha un peso che non è solo materiale, ma emotivo.
Scegliere cosa tenere e cosa lasciare è, a ogni gesto, una piccola separazione, un addio sommesso.
Dostadning: la pratica svedese delle «pulizie della morte»
In Svezia esiste una pratica che viene chiamata dostadning: consiste nel fare le cosiddette «pulizie della morte» già in vita, di solito al momento della pensione.
Si tratta di liberarsi del superfluo, conservare solo l’essenziale e, così facendo, risparmiare ai propri figli la fatica fisica ed emotiva che, spesso, li attende.
Un gesto di amore, di cura, di responsabilità.
Una scelta che alleggerisce il carico della perdita, trasformando il lutto in qualcosa di meno gravoso.
Ma non tutti seguono questa strada.
Non tutti vogliono, o riescono, a svuotare da sé il contenuto emotivo di una vita intera.
Un’eredità fatta di sogni, odori e speranze
I genitori che non conoscevano la dostadning – come tanti nel mondo mediterraneo – hanno lasciato ai figli non solo oggetti, ma anche odori, sapori, emozioni.
In una casa non si accumulano solo cose.
Si sedimentano anni di sogni realizzati, di sacrifici quotidiani, di fatiche invisibili.
Per molte famiglie, soprattutto quelle cresciute nel dopoguerra, ogni singolo acquisto rappresentava il simbolo di un traguardo raggiunto: un divano, un vestito, un soprammobile.
Nulla era davvero superfluo.
Era tutto parte di un sogno di stabilità e serenità.
Svuotare quella casa significa allora ripercorrere anche il viaggio interiore di chi ci ha amato, sacrificandosi silenziosamente.
Diventare grandi con le “pulizie della morte”: un rito di passaggio
Muoversi tra mobili coperti di lenzuoli bianchi e scatoloni destinati al rigattiere non è solo un lavoro fisico.
È un cammino spirituale.
È un rito di passaggio.
Scegliere cosa conservare e cosa lasciare diventa un esercizio doloroso di consapevolezza.
Si impara che diventare davvero adulti, forse, avviene solo in quel momento preciso: quando si chiude la casa dei propri genitori.
Quando, scegliendo tra un eskimo verde e una vecchia copia del Riformista, si sceglie anche chi si vuole essere, quali radici portare con sé, quale memoria tramandare.
Forse, allora, non bisogna avere fretta di fare pulizie prima del tempo.
Forse bisogna accettare che spetti ai figli l’onore – e il peso – di accompagnare la fine di una storia familiare, per poi, finalmente, iniziare la propria.
La mia esperienza personale delle “pulizie della morte”: un atto di cura?
Scrivendo questo articolo per TGFuneral24, sento di dover aggiungere qualcosa di personale.
Non solo per condividere un’esperienza intima, ma anche per offrire ai lettori uno spunto di riflessione, un motivo in più per comprendere che dietro ogni gesto di «pulizia» può nascondersi un grande atto d’amore.
Io le ho fatte le pulizie.
Un anno dopo la morte di mia mamma.
In maniera scientifica, per 7 giorni, dalle 8 alle 18.
La vicina di casa e amica di mia mamma mi sosteneva a caffelatte e savoiardi: il “consolo” come quello dei funerali al sud.
Mia sorella e i miei due fratelli, con motivazioni diverse l’uno dall’altro, non erano con me.
Mio marito invece era lì con me e se non ci fosse stato lui forse non sarei arrivata fino in fondo.
È una delle cose più difficili che ho fatto nella vita.
E non l’ho fatto per diventare grande.
L’ho fatto perché penso sia giusto prendersi cura (anche) delle “cose” appartenute a persone con cui abbiamo un legame.
E forse è anche un modo per conoscere i mondi di una persona.
Questo genere di pulizia non vuol dire “svuotare”, vuol dire “riempire”… altri spazi… altri mondi.
Oltre gli oggetti: la memoria emotiva
Le «pulizie della morte» non sono solo un dovere, né un mero gesto pratico.
Sono una forma di amore che si rinnova nell’assenza.
Un gesto che permette ai figli di chiudere un ciclo e, insieme, di aprire il proprio.
Prendersi “cura” del passato, nel presente, vivendo il futuro.
Laura Persico Pezzino
Le “pulizie della morte”. Chiudere la casa dei propri genitori dopo la loro scomparsa è un’esperienza che lascia il segno.
Non è solo una questione pratica di svuotare stanze, mobili e cassetti.
È come premere il tasto “rewind” e riavvolgere il nastro della propria vita.
Davanti agli oggetti di ogni giorno – quelli che avevano accompagnato l’infanzia, il tumulto dell’adolescenza, e poi erano stati lasciati alle spalle nell’età adulta – si riaprono ferite, si risvegliano ricordi sopiti.
Quelle collezioni di vecchie riviste, quei libri ingialliti, i dischi ormai muti e le racchette da tennis dimenticate: ogni cosa riaffiora come testimone silenziosa di una storia familiare che sembra lontana, e invece è ancora lì, viva, a un passo dal cuore.
Ogni oggetto, ogni mobile, ogni soprammobile ha un peso che non è solo materiale, ma emotivo.
Scegliere cosa tenere e cosa lasciare è, a ogni gesto, una piccola separazione, un addio sommesso.
Dostadning: la pratica svedese delle «pulizie della morte»
In Svezia esiste una pratica che viene chiamata dostadning: consiste nel fare le cosiddette «pulizie della morte» già in vita, di solito al momento della pensione.
Si tratta di liberarsi del superfluo, conservare solo l’essenziale e, così facendo, risparmiare ai propri figli la fatica fisica ed emotiva che, spesso, li attende.
Un gesto di amore, di cura, di responsabilità.
Una scelta che alleggerisce il carico della perdita, trasformando il lutto in qualcosa di meno gravoso.
Ma non tutti seguono questa strada.
Non tutti vogliono, o riescono, a svuotare da sé il contenuto emotivo di una vita intera.
Un’eredità fatta di sogni, odori e speranze
I genitori che non conoscevano la dostadning – come tanti nel mondo mediterraneo – hanno lasciato ai figli non solo oggetti, ma anche odori, sapori, emozioni.
In una casa non si accumulano solo cose.
Si sedimentano anni di sogni realizzati, di sacrifici quotidiani, di fatiche invisibili.
Per molte famiglie, soprattutto quelle cresciute nel dopoguerra, ogni singolo acquisto rappresentava il simbolo di un traguardo raggiunto: un divano, un vestito, un soprammobile.
Nulla era davvero superfluo.
Era tutto parte di un sogno di stabilità e serenità.
Svuotare quella casa significa allora ripercorrere anche il viaggio interiore di chi ci ha amato, sacrificandosi silenziosamente.
Diventare grandi con le “pulizie della morte”: un rito di passaggio
Muoversi tra mobili coperti di lenzuoli bianchi e scatoloni destinati al rigattiere non è solo un lavoro fisico.
È un cammino spirituale.
È un rito di passaggio.
Scegliere cosa conservare e cosa lasciare diventa un esercizio doloroso di consapevolezza.
Si impara che diventare davvero adulti, forse, avviene solo in quel momento preciso: quando si chiude la casa dei propri genitori.
Quando, scegliendo tra un eskimo verde e una vecchia copia del Riformista, si sceglie anche chi si vuole essere, quali radici portare con sé, quale memoria tramandare.
Forse, allora, non bisogna avere fretta di fare pulizie prima del tempo.
Forse bisogna accettare che spetti ai figli l’onore – e il peso – di accompagnare la fine di una storia familiare, per poi, finalmente, iniziare la propria.
La mia esperienza personale delle “pulizie della morte”: un atto di cura?
Scrivendo questo articolo per TGFuneral24, sento di dover aggiungere qualcosa di personale.
Non solo per condividere un’esperienza intima, ma anche per offrire ai lettori uno spunto di riflessione, un motivo in più per comprendere che dietro ogni gesto di «pulizia» può nascondersi un grande atto d’amore.
Io le ho fatte le pulizie.
Un anno dopo la morte di mia mamma.
In maniera scientifica, per 7 giorni, dalle 8 alle 18.
La vicina di casa e amica di mia mamma mi sosteneva a caffelatte e savoiardi: il “consolo” come quello dei funerali al sud.
Mia sorella e i miei due fratelli, con motivazioni diverse l’uno dall’altro, non erano con me.
Mio marito invece era lì con me e se non ci fosse stato lui forse non sarei arrivata fino in fondo.
È una delle cose più difficili che ho fatto nella vita.
E non l’ho fatto per diventare grande.
L’ho fatto perché penso sia giusto prendersi cura (anche) delle “cose” appartenute a persone con cui abbiamo un legame.
E forse è anche un modo per conoscere i mondi di una persona.
Questo genere di pulizia non vuol dire “svuotare”, vuol dire “riempire”… altri spazi… altri mondi.
Oltre gli oggetti: la memoria emotiva
Le «pulizie della morte» non sono solo un dovere, né un mero gesto pratico.
Sono una forma di amore che si rinnova nell’assenza.
Un gesto che permette ai figli di chiudere un ciclo e, insieme, di aprire il proprio.
Prendersi “cura” del passato, nel presente, vivendo il futuro.
Laura Persico Pezzino