3 giugno 2016. Muore Muhammad Ali, simbolo mondiale della boxe e dei diritti umani.

Poche persone nell’arco della loro vita raggiungono lo status di icona, ancora meno divengono faro e nutrimento spirituale di un popolo. Quasi nessuno riesce a mantenere autoironia, voglia di lottare e audacia nel corso di una malattia lunga e sfibrante. Questo era, è e sarà Muhammad Ali
Muhammad Ali nasce come Cassius Clay a Louisville, nel Kentucky, nel 1942.
È un bambino vivace, curioso, che scopre la boxe quasi per caso, dopo che gli rubano la bicicletta.
Ma quel gesto lo spinge in palestra, dove capisce presto che la sua voce, e i suoi pugni, possono cambiare il mondo.
Diventa campione olimpico a Roma nel 1960, poi conquista il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1964.
Poco dopo, si converte all’Islam e sceglie un nuovo nome: Muhammad Ali.
Da quel momento, non è solo un atleta.
È un simbolo.
Rifiuta la guerra in Vietnam, paga con la sospensione dall’attività sportiva, ma diventa l’emblema della coscienza civile afroamericana.
Il ring come teatro della vita
Ali non combatte solo per vincere.
Combatte per dimostrare che la boxe può essere bellezza, poesia, strategia.
Ogni suo incontro è un evento planetario.
“Sono il più grande!” Questa la frase che Cassius Clay ruggì contro il campione in carica dei pesi massimi Sonny Liston quando gli strappò il titolo, dopo 19 incontri professionali vinti (di cui 15 knockout), il 25 febbraio del 1964.
Sfida George Foreman a Kinshasa nel 1974 nel leggendario “Rumble in the Jungle”, e vince contro ogni pronostico.
Nel 1975 affronta Joe Frazier a Manila, in uno degli incontri più duri della storia.
La sua boxe è fatta di movimento, ironia e potenza.
Fluttua come una farfalla, punge come un’ape.
Ma anche quando la sua carriera comincia a declinare, il mito cresce.
Muhammad Ali e l’eredita di un gigante
Dopo il ritiro, Muhammad Ali continua a ispirare il mondo.
Combatte la malattia di Parkinson con lo stesso coraggio con cui affrontava gli avversari sul ring.
Diventa ambasciatore di pace, simbolo di tolleranza, figura amata oltre ogni barriera.
Illumina con la sua presenza la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Atlanta del 1996, tremante ma fiero.
La sua immagine resta scolpita nella memoria collettiva.
L’ultimo saluto
Muhammad Ali muore il 3 giugno 2016 a Scottsdale, in Arizona, all’età di 74 anni.
Riposa nel Cave Hill Cemetery di Louisville, accanto alla sua famiglia.
La sua cerimonia funebre fu un evento mediatico.
Muhammad Ali non è stato solo il più grande pugile di tutti i tempi.
È stato coscienza, resistenza, umanità.
Un uomo che ha trasformato il dolore in dignità e il ring in palcoscenico per la giustizia.
VP
Poche persone nell’arco della loro vita raggiungono lo status di icona, ancora meno divengono faro e nutrimento spirituale di un popolo. Quasi nessuno riesce a mantenere autoironia, voglia di lottare e audacia nel corso di una malattia lunga e sfibrante. Questo era, è e sarà Muhammad Ali
Muhammad Ali nasce come Cassius Clay a Louisville, nel Kentucky, nel 1942.
È un bambino vivace, curioso, che scopre la boxe quasi per caso, dopo che gli rubano la bicicletta.
Ma quel gesto lo spinge in palestra, dove capisce presto che la sua voce, e i suoi pugni, possono cambiare il mondo.
Diventa campione olimpico a Roma nel 1960, poi conquista il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1964.
Poco dopo, si converte all’Islam e sceglie un nuovo nome: Muhammad Ali.
Da quel momento, non è solo un atleta.
È un simbolo.
Rifiuta la guerra in Vietnam, paga con la sospensione dall’attività sportiva, ma diventa l’emblema della coscienza civile afroamericana.
Il ring come teatro della vita
Ali non combatte solo per vincere.
Combatte per dimostrare che la boxe può essere bellezza, poesia, strategia.
Ogni suo incontro è un evento planetario.
“Sono il più grande!” Questa la frase che Cassius Clay ruggì contro il campione in carica dei pesi massimi Sonny Liston quando gli strappò il titolo, dopo 19 incontri professionali vinti (di cui 15 knockout), il 25 febbraio del 1964.
Sfida George Foreman a Kinshasa nel 1974 nel leggendario “Rumble in the Jungle”, e vince contro ogni pronostico.
Nel 1975 affronta Joe Frazier a Manila, in uno degli incontri più duri della storia.
La sua boxe è fatta di movimento, ironia e potenza.
Fluttua come una farfalla, punge come un’ape.
Ma anche quando la sua carriera comincia a declinare, il mito cresce.
Muhammad Ali e l’eredita di un gigante
Dopo il ritiro, Muhammad Ali continua a ispirare il mondo.
Combatte la malattia di Parkinson con lo stesso coraggio con cui affrontava gli avversari sul ring.
Diventa ambasciatore di pace, simbolo di tolleranza, figura amata oltre ogni barriera.
Illumina con la sua presenza la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Atlanta del 1996, tremante ma fiero.
La sua immagine resta scolpita nella memoria collettiva.
L’ultimo saluto
Muhammad Ali muore il 3 giugno 2016 a Scottsdale, in Arizona, all’età di 74 anni.
Riposa nel Cave Hill Cemetery di Louisville, accanto alla sua famiglia.
La sua cerimonia funebre fu un evento mediatico.
Muhammad Ali non è stato solo il più grande pugile di tutti i tempi.
È stato coscienza, resistenza, umanità.
Un uomo che ha trasformato il dolore in dignità e il ring in palcoscenico per la giustizia.
VP