5 luglio 1950. Muore Salvatore Giuliano, il bandito che divide la Sicilia e l’Italia.

Nel caldo asfissiante di Castelvetrano, la notizia corre veloce.
Salvatore Giuliano è morto.
Il suo corpo resta immobile in un cortile, crivellato dai colpi.
Un epilogo annunciato, ma mai davvero immaginato da chi lo considera un eroe popolare, un Robin Hood dei monti siciliani.
Per altri, invece, è solo un criminale spietato, simbolo di una Sicilia che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi.
Tra fuorilegge e leggenda: l’ambiguità di Salvatore Giuliano
Nasce a Montelepre l’11 novembre 1922, in una famiglia semplice, contadina.
Giuliano è giovane, bello, determinato.
Ma soprattutto, si muove in un’Italia spezzata, appena uscita dalla guerra, dove fame e disillusione si mescolano a sogni d’indipendenza.
Quando uccide un carabiniere nel 1943, durante un controllo su un sacco di grano, diventa latitante.
E da quel momento, la sua vita si trasforma in un romanzo violento, oscuro, in cui si incrociano politica, mafia, servizi segreti e fame di riscatto.
Con i suoi uomini, guida la banda armata più discussa del dopoguerra.
Difende i contadini, dicono alcuni.
Estorce, rapina, uccide, rispondono altri.
La strage di Portella della Ginestra, nel 1947, macchia per sempre il suo nome.
Quel giorno, durante la festa del Primo Maggio, si spara sulla folla.
Ci sono morti, feriti, e un dolore che la Sicilia non dimentica.
Eppure Giuliano resta un personaggio magnetico.
Più vicino all’epopea che alla cronaca.
Sogna uno Stato indipendente, sfida le istituzioni, si circonda di fedelissimi.
Ma la sua parabola ha un solo possibile finale.
La fine di un bandito o forse di un testimone scomodo
Il 5 luglio 1950, Salvatore Giuliano viene ritrovato morto.
La versione ufficiale parla di uno scontro a fuoco.
Ma i dubbi restano, alimentati da voci, processi, documenti scomparsi.
Qualcuno dice che è stato tradito dal suo braccio destro.
Altri sospettano un’esecuzione di Stato.
Al suo funerale, a Montelepre, la tensione si taglia col coltello.
Pochi piangono davvero.
Molti osservano, in silenzio, come davanti a una fine inevitabile.
Nel caldo asfissiante di Castelvetrano, la notizia corre veloce.
Salvatore Giuliano è morto.
Il suo corpo resta immobile in un cortile, crivellato dai colpi.
Un epilogo annunciato, ma mai davvero immaginato da chi lo considera un eroe popolare, un Robin Hood dei monti siciliani.
Per altri, invece, è solo un criminale spietato, simbolo di una Sicilia che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi.
Tra fuorilegge e leggenda: l’ambiguità di Salvatore Giuliano
Nasce a Montelepre l’11 novembre 1922, in una famiglia semplice, contadina.
Giuliano è giovane, bello, determinato.
Ma soprattutto, si muove in un’Italia spezzata, appena uscita dalla guerra, dove fame e disillusione si mescolano a sogni d’indipendenza.
Quando uccide un carabiniere nel 1943, durante un controllo su un sacco di grano, diventa latitante.
E da quel momento, la sua vita si trasforma in un romanzo violento, oscuro, in cui si incrociano politica, mafia, servizi segreti e fame di riscatto.
Con i suoi uomini, guida la banda armata più discussa del dopoguerra.
Difende i contadini, dicono alcuni.
Estorce, rapina, uccide, rispondono altri.
La strage di Portella della Ginestra, nel 1947, macchia per sempre il suo nome.
Quel giorno, durante la festa del Primo Maggio, si spara sulla folla.
Ci sono morti, feriti, e un dolore che la Sicilia non dimentica.
Eppure Giuliano resta un personaggio magnetico.
Più vicino all’epopea che alla cronaca.
Sogna uno Stato indipendente, sfida le istituzioni, si circonda di fedelissimi.
Ma la sua parabola ha un solo possibile finale.
La fine di un bandito o forse di un testimone scomodo
Il 5 luglio 1950, Salvatore Giuliano viene ritrovato morto.
La versione ufficiale parla di uno scontro a fuoco.
Ma i dubbi restano, alimentati da voci, processi, documenti scomparsi.
Qualcuno dice che è stato tradito dal suo braccio destro.
Altri sospettano un’esecuzione di Stato.
Al suo funerale, a Montelepre, la tensione si taglia col coltello.
Pochi piangono davvero.
Molti osservano, in silenzio, come davanti a una fine inevitabile.