Epitaffi d’autore, Raffaello Sanzio.

Epitaffi d’Autore, l’ultima parola prima della parola “fine”.
Alcuni se ne vanno in punta di piedi, altri improvvisamente, quasi con un “colpo di teatro”.
In questa rubrica, che abbiamo chiamato *Epitaffi d’Autore*, vogliamo dare “l’ultima parola” a coloro, noti e meno noti, che hanno saputo lasciare il segno… con una sola frase.
Epitaffi che fanno pensare e persino sorridere.
Perché anche la fine, se scritta bene, merita un applauso.
L’artista che ha reso eterna la grazia
Raffaello Sanzio nasce a Urbino nel 1483, in una famiglia di artisti.
Figlio del pittore Giovanni Santi, cresce tra pennelli e affreschi, respirando l’aria colta della corte feltresca.
Ancora giovanissimo, si fa notare a Perugia e poi a Firenze, dove assimila con naturalezza le influenze di Leonardo e Michelangelo.
Ma è a Roma che lascia il segno più profondo: pittore ufficiale dei papi, architetto di San Pietro, custode delle antichità classiche, direttore di cantieri e mentore di allievi.
La sua arte, limpida e armoniosa, incarna l’equilibrio ideale del Rinascimento.
Muore il 6 aprile 1520, all’età di 37 anni.
La leggenda vuole che sia morto lo stesso giorno in cui era nato, un Venerdì Santo, dopo una febbre improvvisa.
La città di Roma si ferma: il suo corpo viene portato in processione al Pantheon, accompagnato da un corteo commosso.
Ed è lì che ancora oggi riposa.

Un epitaffio che fa tremare perfino la Natura
“Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori”
In italiano, queste parole suonano più o meno così:
“Qui giace Raffaello, al cui vivere la Natura temette d’esser vinta, e alla cui morte temette di morire.”
Il tono è solenne, ma anche straordinariamente poetico.
Il cuore dell’epitaffio sta in un ribaltamento drammatico: non è l’uomo a temere la morte, ma è la Natura stessa a temere la perdita di Raffaello.
Quando era in vita, temeva di essere superata nella perfezione, alla sua morte, ha temuto di perdere il proprio splendore.
Il genio di Raffaello non si limita a imitare il mondo: lo sublima.
In un’epoca che vede l’arte come strumento di elevazione spirituale e intellettuale, il suo nome si scolpisce nella pietra come emblema dell’ideale umano.

La paternità dell’epitaffio
La paternità dell’epitaffio è attribuita a Pietro Bembo, umanista e cardinale, grande ammiratore del pittore.
L’amicizia tra i due si era consolidata negli anni romani, alimentata da passioni comuni per la bellezza, l’armonia e il sapere.
Non sorprende, quindi, che proprio Bembo abbia voluto trovare le parole più alte e memorabili per congedare l’amico artista.
Il sepolcro si trova ancora oggi nel Pantheon ornato da una Madonna scolpita da Lorenzetto, su disegno dello stesso Raffaello.
È un luogo che respira ancora quella bellezza misurata, elegante e perfetta che ha reso il suo nome eterno.
Epitaffi d’Autore, l’ultima parola prima della parola “fine”.
Alcuni se ne vanno in punta di piedi, altri improvvisamente, quasi con un “colpo di teatro”.
In questa rubrica, che abbiamo chiamato *Epitaffi d’Autore*, vogliamo dare “l’ultima parola” a coloro, noti e meno noti, che hanno saputo lasciare il segno… con una sola frase.
Epitaffi che fanno pensare e persino sorridere.
Perché anche la fine, se scritta bene, merita un applauso.
L’artista che ha reso eterna la grazia
Raffaello Sanzio nasce a Urbino nel 1483, in una famiglia di artisti.
Figlio del pittore Giovanni Santi, cresce tra pennelli e affreschi, respirando l’aria colta della corte feltresca.
Ancora giovanissimo, si fa notare a Perugia e poi a Firenze, dove assimila con naturalezza le influenze di Leonardo e Michelangelo.
Ma è a Roma che lascia il segno più profondo: pittore ufficiale dei papi, architetto di San Pietro, custode delle antichità classiche, direttore di cantieri e mentore di allievi.
La sua arte, limpida e armoniosa, incarna l’equilibrio ideale del Rinascimento.
Muore il 6 aprile 1520, all’età di 37 anni.
La leggenda vuole che sia morto lo stesso giorno in cui era nato, un Venerdì Santo, dopo una febbre improvvisa.
La città di Roma si ferma: il suo corpo viene portato in processione al Pantheon, accompagnato da un corteo commosso.
Ed è lì che ancora oggi riposa.

Un epitaffio che fa tremare perfino la Natura
“Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori”
In italiano, queste parole suonano più o meno così:
“Qui giace Raffaello, al cui vivere la Natura temette d’esser vinta, e alla cui morte temette di morire.”
Il tono è solenne, ma anche straordinariamente poetico.
Il cuore dell’epitaffio sta in un ribaltamento drammatico: non è l’uomo a temere la morte, ma è la Natura stessa a temere la perdita di Raffaello.
Quando era in vita, temeva di essere superata nella perfezione, alla sua morte, ha temuto di perdere il proprio splendore.
Il genio di Raffaello non si limita a imitare il mondo: lo sublima.
In un’epoca che vede l’arte come strumento di elevazione spirituale e intellettuale, il suo nome si scolpisce nella pietra come emblema dell’ideale umano.

La paternità dell’epitaffio
La paternità dell’epitaffio è attribuita a Pietro Bembo, umanista e cardinale, grande ammiratore del pittore.
L’amicizia tra i due si era consolidata negli anni romani, alimentata da passioni comuni per la bellezza, l’armonia e il sapere.
Non sorprende, quindi, che proprio Bembo abbia voluto trovare le parole più alte e memorabili per congedare l’amico artista.
Il sepolcro si trova ancora oggi nel Pantheon ornato da una Madonna scolpita da Lorenzetto, su disegno dello stesso Raffaello.
È un luogo che respira ancora quella bellezza misurata, elegante e perfetta che ha reso il suo nome eterno.

















































































