Addio a Lee Tamahori, il regista che diede voce alla cultura Māori.

Il talento che portò la cultura Māori nel cinema mondiale
Lee Tamahori, uno dei registi più iconici della Nuova Zelanda, è morto serenamente nella sua casa all’età di 75 anni.
Affetto dal morbo di Parkinson, Tamahori ha lasciato un’impronta indelebile nel cinema internazionale grazie alla sua capacità di raccontare con forza e autenticità le radici della cultura Māori.
Nato a Wellington il 17 giugno 1950 da padre di origini Māori e madre britannica, iniziò la sua carriera come fotografo e regista pubblicitario negli anni ’70, dimostrando fin da subito un occhio attento al realismo e alla profondità emotiva delle immagini.
“Once Were Warriors”, il capolavoro che cambiò la storia del cinema neozelandese
Il successo arrivò nel 1994 con Once Were Warriors – Una volta erano guerrieri, un film potente e crudo che racconta la vita di una famiglia Māori ai margini della società.
Il film, accolto con entusiasmo dalla critica, divenne il maggiore incasso nella storia del cinema neozelandese, imponendosi come un simbolo di rinascita culturale e di riscatto sociale per la comunità indigena.
Grazie a questo capolavoro, Tamahori si affermò come un autore capace di coniugare impegno civile e potenza cinematografica, aprendo la strada a nuove generazioni di registi neozelandesi.
Dalla Nuova Zelanda a Hollywood: l’ascesa di un regista visionario
Dopo il successo internazionale di Once Were Warriors, Tamahori approdò a Hollywood, dove diresse film d’azione e thriller che consolidarono la sua fama di regista dinamico e poliedrico.
Tra i suoi titoli più noti si ricordano Scomodi omicidi (1996), L’urlo dell’odio (1997) con Anthony Hopkins, e Nella morsa del ragno (2001) con Morgan Freeman.
Nel 2002 raggiunse uno dei vertici della carriera dirigendo La morte può attendere, ventesimo film della saga di James Bond e ultimo interpretato da Pierce Brosnan.
La sua regia energica e il ritmo serrato del film gli valsero il rispetto dell’industria cinematografica internazionale.
Tra cinema d’autore e grandi produzioni internazionali
Negli anni Duemila Tamahori alternò blockbuster hollywoodiani a progetti più personali e radicati nella sua identità neozelandese.
Tra le sue opere si ricordano xXx 2: The Next Level (2005) e Next (2007), tratto da un racconto di Philip K. Dick, accanto a film d’autore come The Devil’s Double (2011) e The Patriarch (2016), entrambi apprezzati per la loro intensità drammatica e visiva.
La sua ultima pellicola, The Convert (2023), con Guy Pearce, segna un ritorno simbolico alle origini: un dramma storico ambientato nella Nuova Zelanda coloniale, che esplora il tema del confronto tra culture e la nascita di una nuova identità.
Luci e ombre di una vita fuori dagli schemi
Il percorso artistico di Lee Tamahori non fu privo di controversie.
Nel 2006 venne arrestato a Los Angeles con l’accusa di aver proposto una prestazione sessuale a un agente sotto copertura mentre indossava abiti femminili.
L’episodio si concluse con una condanna a tre anni di libertà vigilata e 15 giorni di lavori socialmente utili, che il regista scontò pulendo le strade di Hollywood.
Tamahori non nascose mai le sue fragilità, trasformandole anzi in una fonte di ispirazione per la sua arte, capace di raccontare l’animo umano in tutte le sue contraddizioni.
L’eredità di un maestro del cinema Māori
La famiglia, annunciando la sua morte a Radio New Zealand, ha ricordato “un immenso spirito creativo” e un “leader carismatico” che ha saputo infrangere limiti e raccontare storie con sincerità e passione.
Tamahori, sposato due volte e padre di due figli, lascia dietro di sé un’eredità artistica che continua a ispirare cineasti di tutto il mondo.
Ogni suo film è un dialogo tra identità e ribellione, tradizione e modernità, dolore e speranza.
Con la sua visione, Lee Tamahori ha dato voce a una cultura spesso dimenticata, portando sul grande schermo l’anima fiera e tormentata del popolo Māori.
Il talento che portò la cultura Māori nel cinema mondiale
Lee Tamahori, uno dei registi più iconici della Nuova Zelanda, è morto serenamente nella sua casa all’età di 75 anni.
Affetto dal morbo di Parkinson, Tamahori ha lasciato un’impronta indelebile nel cinema internazionale grazie alla sua capacità di raccontare con forza e autenticità le radici della cultura Māori.
Nato a Wellington il 17 giugno 1950 da padre di origini Māori e madre britannica, iniziò la sua carriera come fotografo e regista pubblicitario negli anni ’70, dimostrando fin da subito un occhio attento al realismo e alla profondità emotiva delle immagini.
“Once Were Warriors”, il capolavoro che cambiò la storia del cinema neozelandese
Il successo arrivò nel 1994 con Once Were Warriors – Una volta erano guerrieri, un film potente e crudo che racconta la vita di una famiglia Māori ai margini della società.
Il film, accolto con entusiasmo dalla critica, divenne il maggiore incasso nella storia del cinema neozelandese, imponendosi come un simbolo di rinascita culturale e di riscatto sociale per la comunità indigena.
Grazie a questo capolavoro, Tamahori si affermò come un autore capace di coniugare impegno civile e potenza cinematografica, aprendo la strada a nuove generazioni di registi neozelandesi.
Dalla Nuova Zelanda a Hollywood: l’ascesa di un regista visionario
Dopo il successo internazionale di Once Were Warriors, Tamahori approdò a Hollywood, dove diresse film d’azione e thriller che consolidarono la sua fama di regista dinamico e poliedrico.
Tra i suoi titoli più noti si ricordano Scomodi omicidi (1996), L’urlo dell’odio (1997) con Anthony Hopkins, e Nella morsa del ragno (2001) con Morgan Freeman.
Nel 2002 raggiunse uno dei vertici della carriera dirigendo La morte può attendere, ventesimo film della saga di James Bond e ultimo interpretato da Pierce Brosnan.
La sua regia energica e il ritmo serrato del film gli valsero il rispetto dell’industria cinematografica internazionale.
Tra cinema d’autore e grandi produzioni internazionali
Negli anni Duemila Tamahori alternò blockbuster hollywoodiani a progetti più personali e radicati nella sua identità neozelandese.
Tra le sue opere si ricordano xXx 2: The Next Level (2005) e Next (2007), tratto da un racconto di Philip K. Dick, accanto a film d’autore come The Devil’s Double (2011) e The Patriarch (2016), entrambi apprezzati per la loro intensità drammatica e visiva.
La sua ultima pellicola, The Convert (2023), con Guy Pearce, segna un ritorno simbolico alle origini: un dramma storico ambientato nella Nuova Zelanda coloniale, che esplora il tema del confronto tra culture e la nascita di una nuova identità.
Luci e ombre di una vita fuori dagli schemi
Il percorso artistico di Lee Tamahori non fu privo di controversie.
Nel 2006 venne arrestato a Los Angeles con l’accusa di aver proposto una prestazione sessuale a un agente sotto copertura mentre indossava abiti femminili.
L’episodio si concluse con una condanna a tre anni di libertà vigilata e 15 giorni di lavori socialmente utili, che il regista scontò pulendo le strade di Hollywood.
Tamahori non nascose mai le sue fragilità, trasformandole anzi in una fonte di ispirazione per la sua arte, capace di raccontare l’animo umano in tutte le sue contraddizioni.
L’eredità di un maestro del cinema Māori
La famiglia, annunciando la sua morte a Radio New Zealand, ha ricordato “un immenso spirito creativo” e un “leader carismatico” che ha saputo infrangere limiti e raccontare storie con sincerità e passione.
Tamahori, sposato due volte e padre di due figli, lascia dietro di sé un’eredità artistica che continua a ispirare cineasti di tutto il mondo.
Ogni suo film è un dialogo tra identità e ribellione, tradizione e modernità, dolore e speranza.
Con la sua visione, Lee Tamahori ha dato voce a una cultura spesso dimenticata, portando sul grande schermo l’anima fiera e tormentata del popolo Māori.


















































































