24 maggio 1974. Muore Duke Ellington, l’architetto del jazz americano.

Duke Ellington non è solo un nome.
È un suono.
Un ritmo che attraversa il Novecento e ne racconta l’anima.
Il 24 maggio 1974, la sua musica si interrompe per sempre, ma le sue composizioni continuano a suonare ovunque.
Nelle radio, nei teatri, nei cuori.
Con lui non muore solo un musicista.
Muore una delle voci più profonde dell’America del XX secolo.
Un uomo capace di raccontare la complessità della sua epoca attraverso un pianoforte, un’orchestra, e un talento fuori dal comune.
Duke Ellington, l’eleganza nata sul palco
Duke Ellington nasce a Washington D.C., il 29 aprile 1899, in una famiglia borghese e colta.
Fin da ragazzo coltiva la passione per l’arte e per la musica.
Ama il jazz, ma non si ferma ai confini del genere.
Non è solo un pianista.
È un compositore instancabile, un direttore d’orchestra carismatico, un innovatore che riesce a far dialogare jazz, blues, swing, musica classica e spiritual.
Le sue orchestrazioni sono vere e proprie architetture sonore, capaci di dare voce all’esperienza afroamericana con potenza e poesia.
Negli anni ’30 e ’40 diventa una leggenda.
Con la sua big band attraversa il mondo, conquista Broadway, le sale da concerto e le colonne sonore.
Scrive migliaia di brani.
Tra i più celebri, It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing), Mood Indigo, In a Sentimental Mood, Sophisticated Lady.
Ma non si ferma mai.
Neanche con l’età.
Negli ultimi anni compone suites ispirate alla fede, alla storia, alla libertà.
L’addio a un gigante
Duke Ellington muore il 24 maggio 1974 a New York, a causa di un cancro ai polmoni e alla polmonite.
Ha 75 anni.
I funerali si tengono nella cattedrale di St. John the Divine, davanti a migliaia di persone.
Artisti, politici, gente comune.
Tutti uniti dal suono che ha attraversato la vita di un secolo.
Riposa al Woodlawn Cemetery nel Bronx, accanto ad altri grandi nomi della musica.
Sulla sua tomba non serve un epitaffio complicato.
Basta dire: Duke Ellington.
E chi ascolta, sa già tutto.
Duke Ellington non è solo un nome.
È un suono.
Un ritmo che attraversa il Novecento e ne racconta l’anima.
Il 24 maggio 1974, la sua musica si interrompe per sempre, ma le sue composizioni continuano a suonare ovunque.
Nelle radio, nei teatri, nei cuori.
Con lui non muore solo un musicista.
Muore una delle voci più profonde dell’America del XX secolo.
Un uomo capace di raccontare la complessità della sua epoca attraverso un pianoforte, un’orchestra, e un talento fuori dal comune.
Duke Ellington, l’eleganza nata sul palco
Duke Ellington nasce a Washington D.C., il 29 aprile 1899, in una famiglia borghese e colta.
Fin da ragazzo coltiva la passione per l’arte e per la musica.
Ama il jazz, ma non si ferma ai confini del genere.
Non è solo un pianista.
È un compositore instancabile, un direttore d’orchestra carismatico, un innovatore che riesce a far dialogare jazz, blues, swing, musica classica e spiritual.
Le sue orchestrazioni sono vere e proprie architetture sonore, capaci di dare voce all’esperienza afroamericana con potenza e poesia.
Negli anni ’30 e ’40 diventa una leggenda.
Con la sua big band attraversa il mondo, conquista Broadway, le sale da concerto e le colonne sonore.
Scrive migliaia di brani.
Tra i più celebri, It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing), Mood Indigo, In a Sentimental Mood, Sophisticated Lady.
Ma non si ferma mai.
Neanche con l’età.
Negli ultimi anni compone suites ispirate alla fede, alla storia, alla libertà.
L’addio a un gigante
Duke Ellington muore il 24 maggio 1974 a New York, a causa di un cancro ai polmoni e alla polmonite.
Ha 75 anni.
I funerali si tengono nella cattedrale di St. John the Divine, davanti a migliaia di persone.
Artisti, politici, gente comune.
Tutti uniti dal suono che ha attraversato la vita di un secolo.
Riposa al Woodlawn Cemetery nel Bronx, accanto ad altri grandi nomi della musica.
Sulla sua tomba non serve un epitaffio complicato.
Basta dire: Duke Ellington.
E chi ascolta, sa già tutto.